Ricordiamo la recente scomparsa di mons. Luigi Bettazzi recuperando il fascicolo realizzato da Angelo Levati dell’incontro fatto a Cernusco nel 2000 che vedeva la partecipazione proprio di mons. Bettazzi sulla figura del vescovo brasiliano Helder Camara, la Chiesa del Concilio Vaticano II, la Chiesa dei poveri.
Il Vescovo Helder Camara, testimone di un mondo che cambia
Giovedì 17 Febbraio 2000, presso l’Auditorium Maggioni – via don Milani, Cernusco sul Naviglio
Relazione di Mons. Luigi BETTAZZI (già vescovo di Ivrea)
Per parlare di Mons. Helder Camara, mi rifarò molto ai miei ricordi personali: è pur vero che, anni or sono, avevo sentito parlare di dom Helder, ma non è che si sentisse dire molto. Lo avevo incontrato durante il Concilio Vaticano II. A quel tempo si può dire che egli facesse ancora parte dell'”organizzazione ecclesiale” perché, come è successo anche a Mons. Romero, a quel tempo le nomine vescovili venivano fa fatte anche in ottemperanza alla grossa influenza dei governi locali, per lo più dittatoriali, che gradivano vescovi sicuri, nel senso che non fossero tanto innovatori. Il Vaticano li accontentava.
Mons. Camara ha scritto un libro “Le confessioni di un Vescovo” nel quale racconta come da giovane si fosse dedicato all’ordine “Dio, Patria, Famiglia”. In questo libro parla della conversione di un vescovo, in una specie di fascismo brasiliano, conversione aiutata dal contatto con la gente comune.
In questo c’è una somiglianza con Mons. Romero, chiamato dal Vaticano, su suggerimento del dittatore di quel Paese, ad essere Vescovo di San Salvador, perché conosciuto come vescovo moderato.
Già sin da quegli anni, Helder Camara aveva in modo forte il senso della comunità e sulla famosa frase «fuori della Chiesa non c’è salvezza» egli ribatteva: «Che cos’è la chiesa, se non la comunità dei credenti?». Dunque ci si salva se non si vive in una comunità: questo pensiero lo riteneva valido anche per i religiosi di clausura i quali sembra che fuggano dal mondo ma, in realtà, vi si dedicano in misura maggiore nella vita di preghiera e di solitudine, perché al di fuori della comunione non c’è salvezza.
Fu sempre Helder Camara, agli inizi degli anni cinquanta a sostenere che i vescovi, soprattutto in Brasile, grande ventidue volte l’Italia con grandi difficoltà di spostamento, si dovessero incontrare fra loro. Allora non esistevano ancora le Conferenze Episcopali e fu lui a provocare la costituzione della prima Conferenza Episcopale Brasiliana. In Italia si iniziarono a tenere durante il Concilio nel ’62, io vi arrivai alla seconda sessione nel ’63 per l’incontro con tutti i Vescovi italiani.
Inoltre dom Camara, dopo avere sollecitato l’incontro con tutti i vescovi del Brasile, sollecitò quello con tutti i vescovi dell’America Latina, che sarà chiamato CELAM (Consiglio Episcopale Latino-Americano).
Dunque è stata l’esigenza della comunione non soltanto tra i Vescovi, ma fra tutta la gente che lo ha portato a rendersi conto della miseria delle favelas, le grandi periferie delle metropoli brasiliane.
In questo contesto c’è da tener conto della crescita dei latifondi: in Brasile sono state fatte leggi per cui si deve dimostrare di essere in possesso del terreno che si sta lavorando. La maggior parte, non solo degli indios, ma anche di chi sta all’interno del Paese, non si sono fatti fare il documento attestante che da sempre quella è terra loro, per cui chiunque arrivi dalle città della costa, avvisando il Governo, può prenderne possesso come terra di nessuno.
Il primo atto che ne conseguì è stato quello di scacciare chi vi si trova a lavorare perché, in genere, su quelle terre si alleva bestiame da esportare che frutta valuta ai proprietari e allo Stato. Dove va a finire chi viene cacciato? Finisce nelle favelas delle grandi città, dove non esistono case, piani regolatori, strutture di servizi e vanno ad ingrandire un esercito di miserabili che vivono di espedienti per poter campare.
Di fronte a tanto sfacelo, Helder Camara ha preso coscienza che la sua autorevolezza gli imponeva di essere voce di chi non ha voce. Durante il Concilio Vaticano II fu lo stesso Giovanni XXIII a dire che la Chiesa deve essere la “Chiesa dei poveri” e fu soprattutto su sollecitazione di un gruppo proveniente dalla Palestina (un sacerdote francese che si era collegato con il Vescovo Cattolico di Cana di Galilea) che venne lanciato il problema della “Chiesa dei poveri” già nel 1962, durante la prima sessione del Concilio, alla luce del quale il cardinale Lercaro di Bologna e il cardinale Montini di Milano, parlarono di “Chiesa dei poveri”.
E’ vero che se ne parlava, ma chi muoveva le acque era Mons. Camara che, però in Concilio, non aveva mai detto nulla, preferendo fare un lavoro di sensibilizzazione dei vescovi. Fu in quell’incontro che lo conobbi, perché il sacerdote francese di cui parlavo prima, si incontrava con Mons. Camara e altri e mi aveva invitato a fare parte del gruppo: si discuteva parecchio di “Chiesa dei poveri” e siccome quel tema non era stato messo all’ordine del giorno, egli ci invitava ad approfondirlo e a diffonderlo fra i vescovi perché poi ne parlassero.
Eppure la chiesa è sempre stata la Chiesa dei poveri, ne fanno fede nel tempo passato ospizi, ospedali, strutture che poi lo Stato ha assunto e gestito in prima persona; le stesse iniziative civili moderne a favore di giovani drogati sono in genere partite da uomini della chiesa. Comunque la chiesa è sempre stata una chiesa per i poveri piuttosto che la chiesa dei poveri. Che differenza c’è? La differenza è che la chiesa per i poveri è una comunità cristiana che si interessa dei poveri per aiutarli ad avere una vita dignitosa, mentre dovremmo renderci conto che la chiesa deve essere dei poveri, proprio perché è molto più facile aiutare che condividere.
Ce lo ricorda Manzoni nei Promessi Sposi quando scrive che il successore di don Rodrigo offrì il pranzo di nozze agli sposi Renzo e Lucia, li invitò al castello e andò pure a servirli, ma non mangiò con loro. Certo era bravo, ma non era un eroe, perché è anche facile servire, mettersi alla pari un po’ meno.
La grande sollecitudine che dava dom Camara era quella di far sì che i poveri si sentano chiesa come tutti gli altri e che in questa veste possano intervenire con ruolo di protagonisti nella chiesa, la quale cosa, in America Latina, infastidiva il potere civile o il potere militare sostenuto da quello economico e, comunque, certamente dagli USA. Sorge allora il problema che se una chiesa aiuta i poveri è motivo di diffidenza, perché se i poveri si rendono protagonisti come lo sono nella chiesa, domani lo possono fare anche nella vita civile. E’ singolare che il Governo aiuti la chiesa per i poveri, ma che nello stesso tempo diffidi della chiesa dei poveri.
Dom Helder diceva: «Se io dò da mangiare ai poveri dicono che sono un santo, ma se io chiedo perché i poveri hanno fame, allora divento un sovversivo, un comunista». In realtà non dà fastidio, ma se si comincia a riflettere sul fatto che la povertà è frutto di ingiustizia, iniziano i problemi.
Io credo siano questi i problemi con i quali siamo entrati nell’anno 2000; ma già dom Camara, quando era Segretario della Conferenza Episcopale Brasiliana, invitava i vescovi e i teologi a parlare e a entrare in questa consapevolezza. Lo stesso Paolo VI nel 1967 pubblica la “Populorum Progressio”, enciclica sulla pace come sviluppo dei popoli, forse una delle conseguenze sul tema della chiesa dei poveri.
Paolo VI aveva il timore che alcuni problemi trattati pubblicamente nel Concilio, destassero al di fuori di esso echi che potessero influenzare i vescovi, per cui si era deciso che alcune problematiche non fossero discusse in pubblico, per esempio la riforma della Curia, i preti sposati, i matrimoni misti e la pillola.
Comunque si preparò un documento, che io vidi nelle mani di don Dossetti, nel quale si poteva curiosamente leggere che al giorno d’oggi la prima povertà è la trasparenza dei bilanci, cosa molto saggia, anche per la chiesa.
Ricordo circa trent’anni fa, all’inizio del mio ministero in Piemonte, quando si invocava la necessità della comunione dei beni fra i preti, un vecchio e saggio vescovo sosteneva che non è la comunione dei beni ad essere difficile, ne è difficile la confessione.
Due sono le cose che allora fece Paolo VI: sciogliere l’esercito pontificio e sospendere l’uso dell’assistente al soglio pontificio, da sempre appannaggio delle grandi famiglie dei Torlonia, degli Orsini e altre famiglie nobili della capitale. E’ forse dopo queste decisioni che Paolo VI scrisse la Populorum Progressio in cui teneva conto del grande problema dell’organizzazione particolare del mondo per cui alcuni popoli si sviluppano e diventano sempre più ricchi, mentre altri non lo possono perché questi ultimi glielo impediscono.
I giornali dell’epoca parlavano di enciclica sovversiva, ma essa prendeva solo atto di come troppe volte pesa sui popoli più poveri lo sviluppo di quelli più ricchi.
Ma non fu solo Paolo VI a pronunciarsi su questo problema: la stessa ONU nel 1980 incaricò un gruppo di economisti, politici e scienziati appartenenti al primo, al secondo e al terzo mondo di studiare i problemi dell’umanità e i pericoli da affrontare negli anni successivi. A capo di questo gruppo vi era Willy Brandt e il rapporto che ne uscì, conosciuto come Rapporto Brandt, sottolineava il grosso pericolo dovuto allo scontro Est e Ovest, che poteva anche finire in una guerra atomica. Non dimentichiamo che eravamo in piena guerra fredda e allora si diceva che erano talmente tante le bombe atomiche, che si sarebbe potuto distruggere ventisette volte l’umanità.
Quel rapporto parlava comunque di fatti che stanno avvenendo, cioè la divaricazione crescente tra il Nord e il Sud del mondo, vale a dire fra la parte del mondo più ricca e sviluppata e quella che lo è meno.
Forse quanto sto dicendo non riguarda direttamente dom Camara, ma se lo faccio è per cercare di capire certi fatti: per esempio, perché l’ONU ha così poca importanza? Perché oggi ne fanno parte anche i popoli poveri, i quali non se ne stanno zitti, ma contestano e criticano.
Che facciamo noi popoli più ricchi? Ci facciamo organismi per conto nostro, oggi le guerre le fa la NATO, dentro la quale ci sono popoli ricchi, addirittura durante la guerra del Kossovo, l’organizzazione per la difesa dei confini è diventata l’organizzazione per la difesa degli interessi, quelli nostri beninteso.
Tra l’altro le guerre vengono fatte con armi prodotte nei nostri paesi, così come siamo noi ad organizzare il commercio, a farci le banche, che fioriscono prestando soldi a interessi spaventosi. Nella stessa Banca Mondiale (BM) e nel Fondo Monetario Internazionale (FMI) non vi sono paesi poveri.
Di fronte a ciò che oggi succede e che dom Camara temeva che avvenisse, egli diceva che i poveri non devono lasciarsi prendere dall’odio, i ricchi devono prendere coscienza che la loro ricchezza poggia sulla povertà di interi popoli. Dobbiamo anche ricordarci che le nostre ricchezze ce le siamo create con le Colonie, dividendo magari le tribù fra di loro, obbligando gli uni a imparare l’inglese piuttosto che il francese o lo spagnolo, magari all’interno delle stesse tribù. I problemi presenti in Africa dipendono in gran parte solo dal fatto che noi eravamo i più forti: in Congo, a suo tempo, i Belgi impedirono ai nativi di frequentare l’Università e al momento dell’indipendenza non c’era un numero sufficiente di persone preparate a guidare il Paese.
C’è stato Lumumba, ma non è andata bene in quanto comunista, poi al suo posto è stato messo Mobutu che, per trent’anni si è comportato da dittatore, ma con lui non c’erano problemi, andava bene così.
Tornando a quanto stava a cuore a Mons. Camara, diceva che era necessario dare coscienza ai poveri della loro dignità di esseri umani e di figli di Dio in forza del Vangelo; quando in America latina si voleva demonizzare qualcuno, si diceva che fosse marxista e lo stesso Camara veniva apostrofato come “Vescovo rosso”, ma se c’era una persona contraria a questa ideologia era proprio dom Helder; era comunque comodo tacciarlo di marxismo per dire che non era un personaggio da seguire.
Invece era proprio in nome del Vangelo che la gente del popolo si incontrava a leggere i testi sacri e proprio attraverso questa lettura capiva che non è giusto che molto soffrano la miseria soltanto perché altri sono potenti e prepotenti. dom Camara era convinto della necessità di denunciare le ingiustizie , cosa della quale noi nella chiesa abbiamo un po’ paura, ma che comunque bisogna fare, senza odio nè cattiveria, perché chi compie ingiustizie si possa rendere conto di non stare facendo cose buone. In fondo nostro Signore non l’hanno ucciso perché non tanto perché annunciava, quanto perché denunciava.
Quando veniva in Europa e noi gli si chiedeva che cosa potevamo fare per aiutarlo, Mons. Camara rispondeva che la prima cosa era cambiare la nostra vita, diversamente l’80% dell’umanità avrebbe continuato ad avere il 20% delle risorse e il 20% avrebbe continuato ad averne l’80%.
Mi chiedo, a questo punto, se nell’era dei computers e di internet, cosa di per sè positiva, il 20% di cui sopra non si troverà ancora più ricco e sviluppato, mentre chi è emarginato lo sarà sempre di più.
La vicinanza di Mons. Camara con la gente esaltava il suo spirito di amicizia e il suo entusiasmo che gli faceva ringraziare il Signore per avergli dato “mani napoletane” nel senso che parlava con gesti, oltre che con le parole; ha scritto anche della musica e delle poesie, segno della sua cultura e della sua fantasia. Pochi sanno però che quando diventò prete fece il proposito di fare un’ora di preghiera tutte le notti, in qualsiasi luogo si trovasse, ripassando la giornata passata e preparando quella futura; la vedeva come un’ora di adorazione perché nell’adorazione vedeva il Signore presente nell’ostia e, nell’ora notturna, lo vedeva presente in Francesco o in Antonia, nelle persone cioè che aveva incontrato o che avrebbe voluto incontrare.
Questa cosa mi ha molto colpito e mi ha fatto capire perché in quell’ora di preghiera notturna egli trovasse la forza di sfidare tante contrarietà.
Lasciatemi però dire le diffidenze all’interno della sua chiesa, quella del Brasile, ma anche l’altra: qualcuno dice che avrebbero dovuto farlo cardinale, ma ve n’erano altri che criticavano questo suo interesse eccessivo per la gente umile e povera: pensate che in Brasile era proibito citarlo, men che meno sui giornali, non bisognava mostrarlo in televisione: censura su tutta la linea.
Quando il Papa si recò in Brasile, si fermò anche a Recife e allora lo dovettero far vedere per forza. Di fronte a lui il Papa: “Ecco dom Helder, fratello dei poveri e fratello mio!”.
Credo che un uomo come questo ci richiami al valore della fede che si apre alla carità, alla solidarietà; che scuote le nostre chiusure coperte da motivazioni e pretesti.
Ricordo che, durante il Concilio, quando i Vescovi orientali parlavano dello Spirito Santo, noi cascavamo un po’ dalle nuvole, perché lo Spirito Santo, da noi, era il grande sconosciuto.
Abbiamo poi capito che Dio non l’Assoluto dell’individualismo, ma è l’Assoluto della Comunione. Dunque aveva ragione dom Helder a dire che se non c’è comunione non c’è salvezza e che la fatica che noi facciamo per uscire da noi stessi per aprirci agli altri, è la fatica per ritrovare la nostra vera identità umana.
Quando leggiamo il libro della Genesi al punto dove è scritto “Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza” noi abbiamo sempre pensato che Dio non è l’individuo da solo, ma l’individuo aperto agli altri.
Credo sia in questa consapevolezza che arriva Helder Camara, il quale sollecitava ad impegnarsi nella giustizia e nella solidarietà, anche se si è parte di quelle che lui chiamava “minoranze abramitiche”, riferendosi ad Abramo che, quando andò in Palestina, era una assoluta minoranza.
Dobbiamo sentire vivo il richiamo del Signore a prendere coscienza e ad aiutare gli altri ad avere coscienza; credo allora che la figura di Helder Camara sarà un caro ricordo non soltanto per quello che lui è stato per il Brasile, per il Concilio, per la Chiesa dei poveri, per i tanti messaggi annunciati, ma possa anche essere un incoraggiamento per noi a prendere coscienza di essere uomini e cristiani solo nella misura in cui ci apriamo agli altri.